E siamo a metà maggio. Questo 2020 che è iniziato
con tante belle premesse, dopo poco più di un mese, le vede tragicamente frantumate, trasformandosi purtroppo in un annus horribilis.
Mi sembra un secolo fa quando eravamo tutti
insieme a festeggiare con i calici in mano. Ora quando vedo più di tre persone
insieme già mi allarmo. Feste, banchetti, concerti, abbracci, strette di mano,
cose che appartengono al mondo “normale” prima del covid19, anche a vederli in
un film mi stupiscono e agitano. Si è creata una sorta di spartiacque
temporale, niente sarà più lo stesso e il tempo si divide esattamente in due
parti: prima e dopo. Spero che questa
sensazione di allerta perenne ormai impregnatasi in tutti i miei pensieri e in
tutte le mie azioni, che mi ha catapultata nel “nuovo normale”, prima o poi mi
abbandoni, perché di normale per me non ha proprio niente.
Con lo spettro della morte alle spalle, questa pandemia ci ha costretti al distanziamento sociale, una cosa per noi contro natura. Pazzesco. Ma è così che stanno le cose ora: vite a distanza. La mia poi, come quella di altri italiani che vivono all’estero, è doppiamente distante.
Con lo spettro della morte alle spalle, questa pandemia ci ha costretti al distanziamento sociale, una cosa per noi contro natura. Pazzesco. Ma è così che stanno le cose ora: vite a distanza. La mia poi, come quella di altri italiani che vivono all’estero, è doppiamente distante.
Vivo una doppia quarantena invisibile e muta, sia fisica che emotiva, in bilico fra due Paesi.
Mi sono chiusa in casa con il resto d’Italia
anche quando l’Olanda, la mia seconda Patria, ignorava consapevolmente il
problema, ostinandosi a considerare questo virus poco più di una normale
influenza, salvo poi fare una brusca frenata in tragico ritardo.
L’ho fatto volontariamente perché le notizie
che mi arrivavano dall’Italia erano allarmanti ed evidenziavano la reale
gravità della situazione. In un certo senso l’ho fatto anche per essere, a modo
mio, più vicina e solidale con la mia famiglia, i miei amici e voi tutti.
I miei sentimenti, le mie emozioni in questi
mesi sono stati e sono diversi, altalenanti e soprattutto vissuti al quadrato:
da italiana nell’anima e da olandese d’adozione.
Le prime settimane sono state dominate
dall’incertezza, visto che poco si sapeva su questo virus e sulla sua reale
pericolosità. Poi, nel vedere il numero impressionante di morti, le severe
misure di contenimento adottate in Italia, sono passata alla paura, paura che
potesse accadere qualcosa ai miei cari, paura di non poterli materialmente
raggiungere. E questa paura, anche se latente, è ancora lì.
Le immagini, trasmesse anche qui, delle chiese
tappezzate solo di bare o della colonna di camion dell’esercito piene di
feretri, io non credo di poterle mai più dimenticare.
Contestualmente vivevo lo sconcerto e lo
sconforto nel constatare che invece qui dove vivo io, si continuava
irresponsabilmente a sottovalutare, si era colposamente in ritardo su tutto
nonostante fosse ormai chiara l’enormità e la gravità della situazione. Si
continuavano a fare paragoni improbabili e per certi versi offensivi, che evidenziavano
solo la pochezza di chi li faceva.
Ahimè, l’Olanda, la mia seconda Patria, che tanto amo e alla quale sono grata per tante cose, si è proposta dall’alto in una veste a me sconosciuta, sgradevole e difficile da digerire. L’incredulità nel vedere e sentire ciò che qui accadeva, ha lasciato presto spazio alla delusione, quella profonda.
Ahimè, l’Olanda, la mia seconda Patria, che tanto amo e alla quale sono grata per tante cose, si è proposta dall’alto in una veste a me sconosciuta, sgradevole e difficile da digerire. L’incredulità nel vedere e sentire ciò che qui accadeva, ha lasciato presto spazio alla delusione, quella profonda.
Raccapricciante l’incapacità governativa a
reagire empaticamente in casa propria, figuriamoci fuori. Rivoltante la
constatazione che invece di vedere la trave nel proprio occhio,
inopportunamente ci si pavoneggiava “da primi della classe” (di una classe
vuota) a dare lezioni di contabilità ad altri e a tirare fuori il peggio del
peggio degli stereotipi per accattivarsi, in piena pandemia, i voti dei
fascistoidi nostrani, quelli di “prima gli olandesi”, per intenderci (tutto il
mondo è paese purtroppo). Sconcertante l’arrogante presunzione di essere in
possesso di conoscenze epidemiologiche, virologiche e gestionali, sempre e
costantemente diverse dal resto del mondo che, nonostante la loro discutibilità
e le tantissime critiche, continuano ad essere spudoratamente ostentate come le
più “intelligenti”.
Per la prima volta in 18 anni mi sono sentita
sola qui. A dirla tutta, mi sono sentita tradita. Sono solo io a pensarla
diversamente? No. Tantissimi olandesi la pensano come me. Ma la triste
sensazione di essere sola e disorientata in casa propria, quella purtroppo
rimane.
In questi mesi, la paura viene e va e ha diverse gradazioni, in quelle più cupe spesso non riesce a far dormire. Il pensiero più spettrale e angosciante è il sapere di lasciare mia figlia qui sola, senza affetti immediati, se dovesse succedere qualcosa a me o a mio marito. Un tale pensiero mi toglie il respiro.
In questi mesi, la paura viene e va e ha diverse gradazioni, in quelle più cupe spesso non riesce a far dormire. Il pensiero più spettrale e angosciante è il sapere di lasciare mia figlia qui sola, senza affetti immediati, se dovesse succedere qualcosa a me o a mio marito. Un tale pensiero mi toglie il respiro.
Al carosello di emozioni si è aggiunta poi la
rabbia, quando si è reso evidente che molte cose sarebbero potute andare meglio
se, per esempio, la sanità in Italia non fosse stata tagliata e svilita per
anni (e comunque anche qui i tagli “virtuosi” che mettono “i conti in ordine”
di cui ci si vanta tanto, sono sempre e solo stati fatti nei soliti settori:
sanità, istruzione e sicurezza), se si fosse investito appropriatamente nella
prevenzione e innovazione in casa propria, ma anche nell’informatizzazione
delle scuole e delle pubbliche amministrazioni.
Ma con i se e con i ma la storia non si fa.
Spero solo che da tutto ciò qualcosa s’impari. La lagna non mi appartiene, lo
considero un esercizio vuoto e inutile, come considero disfattista il
fossilizzarsi sul negativo. In questa ottica ho avuto la dimostrazione che, in
qualche caso, il giardino del vicino è sempre più verde perché è di plastica.
Con tutti e i tanti i limiti dell’Italia, gli
errori, i ritardi, ho visto sempre l’umanità, percepito l’empatia e ho visto
anche parecchie cose funzionare, persino prima che qui, nella super organizzata
Olanda, che in questa emergenza, a livello governativo, sta dimostrando il suo
lato peggiore.
Il credo odioso e deleterio del “prima...”, in tutte le sue forme, serpeggia anche qui e in questa circostanza
ha preso le sembianze dell’homo economicus che implacabile domina e schiaccia
quello emphaticus che non ha nessuna speranza. Tutto viene misurato quasi
esclusivamente in termini economici, di umano e solidale ben poco.
Alla rabbia si è unita anche l’amarezza nel
vedere che l’Italia della politica, in una emergenza umanitaria ed economica
mondiale, estremamente drammatica come questa, proprio non riesce ad essere
unita e, seppur nel rispetto delle reciproche opinioni, a “combattere” insieme.
Vedere molti parassiti politicanti che, un
giorno sì e l’altro pure, da palcoscenici per lo più virtuali, fanno senza
vergogna sciacallaggio su tutto e tutti, sbraitano tutto e il contrario di
tutto, per il puro e irresponsabile piacere di distruggere e seminare odio e
con l’esclusivo obiettivo di mantenere la poltrona, è disgustoso. Il bene
comune non ha valore, fare fronte unico non è una priorità assoluta. Uno
spettacolo indegno e ributtante che dà solo munizioni a chi l’Italia la vuole
sempre più debole, messo in scena proprio da quelli che “prima l’Italia!”. Sì,
nella fossa. Letteralmente purtroppo.
Con i diversi allentamenti delle misure restrittive previsti dalle fasi 2 in avvicinamento, se qui potrò permettermi di fare più cose fuori casa, non credo di uscire dalla quarantena emotiva. Io rimango chiusa dentro perché sono consapevole che nell’immediato futuro non potrò tornare in Italia e riabbracciare i miei genitori, mia sorella, mio fratello, i miei cognati, i miei nipoti e gli amici cari, né tanto meno tornare nei posti del cuore.
A quelli che il distanziamento di un metro e
mezzo sembra una tortura, pensate a chi come noi, è a migliaia di chilometri di
distanza dai propri cari. Ma soprattutto pensiamo che in questa fase molto fragile
e instabile, i nostri minimi “sacrifici” servono a salvare vite.
Responsabilità e solidarietà devono essere la nostra bussola in una situazione in cui purtroppo ci si muove a vista. Molto è nelle nostre mani, non sempre ed esclusivamente in quelle dei politici.
Responsabilità e solidarietà devono essere la nostra bussola in una situazione in cui purtroppo ci si muove a vista. Molto è nelle nostre mani, non sempre ed esclusivamente in quelle dei politici.
Qualche giorno fa mi sono regalata un libro bellissimo di una scrittrice/giornalista olandese che ama follemente il nostro Bel Paese, il cui titolo “Mijn Puglia” cioè “La mia Puglia”, scritto in olandese e italiano, mi sembra proprio la sintesi perfetta di dove mi trovo io: la Terra di mezzo, abitata da persone come me in stato di nazionalità confusionale. Non mi sento italiana in Italia, né olandese in Olanda. Vivo le due Terre e soprattutto le due culture, da equilibrista. Però so che sono italiana, come so che il sole sorge ogni giorno. È una questione che prescinde dalla banale appartenenza, da gretti campanilismi, dal patriottismo fanatico e che si basa sull'essere: sono italiana, appunto.
Vedere quelle foto, leggere quanto scritto
sulla mia Puglia in particolare, riconoscerla, riconoscermi, ha dato spazio,
anche solo per un momento, alla speranza di uscire quanto prima da questo tempo
surreale e immobile e tornare presto a stringere, in un abbraccio infinito, chi
amo.
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